Da qualche giorno a Torino in via Lagrange ha aperto una filiale di Eataly, il «supermercato» di cibi di qualità, del territorio, a chilometro zero, tipici, bla bla bla, fondato da Oscar Farinetti (già fondatore di UniEuro: ricordate l'ottimismo, sale della vita?), improntato alla stessa filosofia enogastronomica su cui è incentrato Slow Food. Premetto che conoscevo già la sede del Lingotto, di cui apprezzo la possibilità e comodità di trovare molti generi alimentari un po' particolari tutti insieme (che è il principio di base dei supermercati in genere, molto poco «slow» rispetto alle botteghe di una volta e ai mercati rionali; ma tant'è). Certo, da Eataly costa tutto di più: per esempio, i torcetti della ditta Massera (squisiti!) saranno anche difficili da trovare, fatto sta che al Crai di via Vanchiglia ci sono, e costano qualche decina di centesimi in meno. Ma è anche vero che il Crai non è «fashion» come la sede di Eataly, che – ripeto – mi piace visitare di tanto in tanto per qualche compera (stando però ben alla larga dalle pere: una volta ne ho acquistata una da accompagnare al formaggio, ed era immangiabile: durissima, legava i denti e non sapeva assolutamente di nulla; ma tant'è). Già: tant'è. La curiosità di fare un salto nella nuova filiale c'era, e così sabato mattina il Pupo e io siamo andati a sbirciare, con la scusa che lui doveva acquistare qualche regalo mangereccio e bevereccio. Purtroppo siamo arrivati ch'era ora di pranzo, e a quanto pare i torinesi non ancora in ferie erano tutti lì a mangiare. Sì, perché da Eataly – per chi non lo sapesse – oltre a fare la spesa come in un supermercato, si può anche metter qualcosa sotto i denti. Al Lingotto, però, le due attività sono tenute sufficientemente separate: in alcune zone, oltre agli scaffali di prodotti gastronomici, ci sono i «ristorantini», che consistono in banconi ai quali ci si può sedere per assaggiare piatti preparati con i cibi in vendita in quel reparto. In via Lagrange, invece (vuoi perché non tutti hanno la dote di fare due più due e prevedere il prevedibile, vuoi per tenere il piede in due staffe, leggi «fare più soldi»), han pensato bene di mettere tavolini e seggiole dappertutto! Risultato: un girone dantesco. Ci siamo trovati a scegliere cosa comprare dagli scaffali, col sedere praticamente sulla testa di chi mangiava; se uno si alzava dal tavolo, sbatteva lo schienale della sedia contro un cliente; per non parlare delle cameriere che sfrecciavano ovunque in mezzo alla folla reggendo piatti di pasta sui quali chiunque, prima che fossero giunti a destinazione, poteva sternutire, tossire, far cadere capelli e altre amenità. Secondo me, è totalmente non a norma. Fra l'altro, sarò strana, ma a me vedere la gente che mangia fa passare l'appetito, e quindi anche la voglia di comprare da mangiare. E poi, come si fa a ciondolare bel belli a guardare bottiglie di vino, a mezzo metro da gente che sta pranzando? Che intimità! Per non parlare di quei poveracci che stavano seduti a tavola, con la gente che gli girava intorno alla ricerca del reparto prosciutti! Altro che «slow»!
C'è da dire, poi, che la scelta di Eataly sembra enorme, ma in realtà presenta delle lacune. Il Pupo cercava l'alkermes, e lì non l'abbiamo trovato. Allora ho pensato di andare in quella meravigliosa drogheria che si trova in piazza san Carlo: Paissa. Sta lì da più di un secolo, quando non si parlava di prodotti tipici, perché tanto era già tutto tipico; da Paissa, poi, è anche tutto speciale. Le sue grandi vetrine mostrano con orgoglio whisky da 200 euro (e li valgono tutti) accanto a saponette cinesi al gelsomino da 1 euro, creme al tartufo e fois gras accanto a detersivi per pavimenti: e tutto di ottima qualità. Hanno le galettes bretoni a 2 euro e i krumiri di Casale a 20 euro, i dolcetti turchi lokum e le offelle di Parona, le gaufres francesi, il sapone Valobra in tutte le profumazioni possibili, vini di tutti i prezzi, grissini, tè di ogni provenienza in scatole di latta dipinte... e poi tanta, tanta cioccolata! Dimenticavo: hanno anche l'alkermes... Ma la cosa impagabile – e, a quanto pare, irriproducibile – è che, varcata la soglia di questo sancta sanctorum delle delizie, ti ritrovi in un ambiente nient'affatto snob, o alla moda, o «slow». Dentro, trovi semplicemente un ambiente accogliente, stipato fino al soffitto di leccornie, e una gentilissima signora di una certa età che ti serve come se fossi l'unico potenziale cliente sulla faccia della Terra: con calma, con garbo, con semplice eleganza, con soddisfazione e competenza. Perché Paissa non è «tipico»: è solo e semplicemente Paissa. Paissa non è «slow» (banalissimo, questo uso di vocaboli inglesi: non molto tipici..., ma si vede che l'italiano non attira abbastanza clienti, con buona pace di Dante e Manzoni). Paissa è molto di più: è un posto dove si ritorna bambini che guardano con occhi spalancati meraviglie che si erano dimenticate, ma che poi, a osservarle bene, ci si ricorda che quel tè lo beveva il nonno, quel detersivo lo usava la nonna, quei bonbon te li comprava la mamma quand'eri piccolo e quelle saponette hanno un profumo che hai già sentito tanti anni fa.